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Intervista a Alain Schroeder / #URBANinsights

Alain Schroeder, Muay Thai Kids
Photo © Alain Schroeder


Intervista a Alain Schroeder / #URBANinsights

Gli #URBANinsights sono una serie di interviste esclusive e approfondimenti dedicati ai vincitori degli URBAN Photo Awards. L’#URBANinsights di oggi è un’intervista ad Alain Schroeder, vincitore dell’edizione 2022 del concorso, per la categoria Projects & Portfolios con il suo “Muay Thai Kids”, scelto da Shobha.


Grazie per aver trovato il tempo per quest’intervista, e congratulazioni per la sua vittoria con il progetto Muay Thai Kids, una serie fotografica che rappresenta la dura realtà del vivere e sopravvivere sul ring.

In realtà la Muay Thai è talmente radicata nella cultura thailandese che pochissimi genitori la pensano così. Non ci vedono nulla di male, e neanche i bambini, che anzi sono orgogliosi di poter aiutare le loro famiglie. È semplicemente un normale stile di vita. Ho visto madri, padri e nonni fare il tifo a bordo ring; intere famiglie che preparavano i bambini ai combattimenti.

Personalmente, non apprezzo l’aspetto delle scommesse che riguarda questo sport. La posta in gioco carica i bambini di troppa pressione.

Sono d’accordo con i medici della Mahidol University della Thailandia che, dopo aver confrontato le scansioni cerebrali dei bambini-lottatori con quelle dei non lottatori, hanno concluso che permettere ai ragazzi di età inferiore ai 15 anni di combattere potrebbe provocare diversi danni al cervello.

Poco tempo fa, dopo la morte di un ragazzo durante un incontro, i legislatori thailandesi hanno nuovamente proposto di vietare le gare ai bambini con meno di 12 anni, ma questa legge non è stata ancora approvata. La mentalità sta lentamente cambiando e le autorità thailandesi (e altre persone istruite) iniziano a prendere in considerazione la salute dei bambini, ma il problema è che questi bambini-lottatori non provengono da famiglie benestanti. Molti vengono da comunità povere (di solito dalla regione dell’Isan) dove la Muay Thai garantisce loro uno stipendio minimo per vivere, spesso anche molto più elevato di quello che i genitori riescono a guadagnare. Risolvere questo problema è il primo passo verso il cambiamento.

Quanto tempo ha impiegato per portare a termine questo progetto dal momento in cui le è venuto in mente? Come ha organizzato il progetto, anche in termini di collegamenti, logistica, ecc.?

Avevo già in mente questo progetto da qualche anno. Ho molti fascicoli con tutte le tematiche che voglio trattare nei vari paesi. Volevo mostrare la Muay Thai praticata dai bambini e non dagli adulti. Avevo visto una foto di un bambino di 5 o 6 anni, con i guantoni da box e uno sguardo spaventato e subito è nata l’idea di realizzare questa serie.

Sono andato in Thailandia nel dicembre del 2021, quando le restrizioni per il COVID-19 erano state allentate e i combattimenti erano stati ripristinati. Ho iniziato a scattare in una palestra nel nord-est della Thailandia. Ho seguito e fotografato questi pugili in palestra, a scuola, a casa… e poi anche durante la settimana di gare a Surin a cui hanno partecipato anche molti altri giovani pugili, per un totale di tre settimane.
I thailandesi sono molto amichevoli e accoglienti, quindi non ho avuto nessun problema.
Vedere i ragazzi che si allenavano con disciplina e dedizione è stato davvero emozionante. Come in tutti gli altri sport, i ragazzi sviluppano abilità sia mentali che fisiche che li accompagneranno per tutta la vita, ma mi sembrava che l’allenamento da solo non bastasse a descrivere questa realtà nel suo complesso, ed è per questo che ho deciso di assistere per sei serate al torneo di Muay Thay a Surin. Le gare sono tutta un’altra storia. Al di là del dolore fisico, ho visto la pressione da parte delle famiglie e degli allenatori, per non parlare dei colpi continui che potrebbero compromettere la salute dei ragazzi. Ho voluto mostrare cosa succede sul ring in modo che le persone possano farsi un’opinione riguardo i combattimenti tra bambini.

L’immagine del bambino che dorme stringendo un pupazzo tra le braccia evidenzia il netto contrasto tra la violenza di questo sport e l’innocenza di una tenera età, oltre ad alludere a cosa si rischia di perdere praticando questo sport.

Dove si trovava e cosa ha pensato quando ha visto questa scena?
I bambini si svegliano di fatto molto presto e a volte vanno a correre prima di andare a scuola. Alle 16:00 quindi sono già stanchi e di solito si riposano un po’ prima dell’allenamento del pomeriggio dalle 17:00 alle 18:30.
Pochi giorni prima che scattassi la foto, questo bambino (10 anni) era stato proclamato campione del mondo a Bangkok nella sua categoria di peso. L’aspetto positivo è che fortunatamente fuori dal ring i bambini si comportano ancora come tali. Il fine settimana successivo l’ho visto giocare per ore con gli amici vicino alla palestra.

In tutto il mondo, e soprattutto nei paesi in via di sviluppo, i bambini sono mandati a lavorare per contribuire al sostentamento della famiglia, mentre altre volte sono coinvolti in alcune pratiche tradizionali radicate nella religione, nella cultura o nella storia.

Quando passi molto tempo insieme alle persone, inizi a comprendere le loro motivazioni. La Muay Thai offre ai ragazzi di modeste origini e alle loro famiglie l’opportunità di un futuro migliore. È importante capire il contesto.

Ho scelto di proposito lo scatto del bambino che piange nel proprio angolo del ring come ultima immagine della serie. L’arbitro si è subito accorto che era in difficoltà e ha interrotto l’incontro. Dall’espressione e dal linguaggio del corpo del bambino si capiva chiaramente che non voleva continuare. Le cause sono evidenti: la giovane età, la mancanza di protezioni e la pressione dell’essere sul ring. Ma quando pensiamo a questa realtà, dobbiamo anche cercare di capire il punto di vista dei thailandesi, certamente molto diverso dal nostro.

Sono contrario allo sfruttamento dei bambini a scopo di intrattenimento o a scopo di lucro, e anche se la Muay Thai è un antico sport thailandese non significa che deve essere praticato senza regole.

C’è un motivo particolare per cui ha scelto di raccontare la storia sicuramente importante dei Muay Thai Kids piuttosto che magari quella dei bambini che lavorano nei campi o negli hotel in rovina?

La Muay Thai è un’arte marziale antica, fortemente radicata e rispettata nella cultura thailandese. È un tipo di combattimento violento che richiede disciplina, resistenza mentale e impegno, ma è anche molto altro. L’onore, il rispetto, e gli insegnamenti rituali e religiosi giocano un ruolo altrettanto importante.

Ho iniziato questo progetto in una palestra gestita da una donna canadese e da un uomo thailandese. Sono rimasto stupito dalla dedizione di tutti i lottatori (ragazze e ragazzi dai 6 ai 20 anni), che si impegnano volentieri a rispettare la severa disciplina che viene loro imposta. Ogni giorno vanno a correre, colpiscono sacchi pieni di sabbia, fanno flessioni e addominali per avere più forza. Si divertono e si sforzano di migliorare. Si tratta di uno sport faticoso che richiede molto impegno. Intanto vanno tutti a scuola per ricevere comunque un’educazione. In questa palestra, i ragazzi possono scegliere se combattere sul ring o allenarsi soltanto, e se vogliono smettere non ci sono problemi. Non funziona così in altre palestre gestite solo da gente del posto.

Parlando delle mie sensazioni, posso dire che durante la settimana di gare a Surin, ho avuto paura che potesse succedere qualcosa di brutto, però mi sono subito accorto che gli arbitri sono estremamente attenti e prudenti nei confronti dei pugili più giovani (dai 6 ai 10 anni). Interrompono l’incontro non appena un ragazzo inizia a sopraffare l’altro. Non ho visto infortuni. Bisogna anche dire che i bambini hanno poca tecnica e poca potenza. Il 90% dei pugni che tirano non sfiorano neanche l’avversario. Colpiscono l’aria praticamente.

Considerando che la Muai Thai non è uno sport per deboli di cuore e aggiungerei anche di stomaco, e che molti ci pensano due volte prima di assistere a questo tipo di spettacolo, qual era l’obiettivo che sperava di raggiungere documentando questa pratica per un pubblico così vasto? E in che modo spera che questo progetto possa influenzare la comunità locale direttamente coinvolta?

La parte positiva di questo sport è sicuramente l’allenamento. Ho praticato diversi sport (tennis, nuoto, calcio…) quando ero molto piccolo (6-7 anni), e apprezzo davvero le lezioni di vita che ho ricevuto: duro lavoro, disciplina, correttezza, rispetto per gli altri. Stare in palestra e far parte di una squadra tiene i ragazzi lontano dai guai, dalle droghe, dall’alcool, dalla prostituzione…

L’aspetto negativo sono i possibili rischi per la salute dei ragazzi. Se le famiglie fossero in grado di mantenersi da sole senza l’aiuto dei figli, sarebbe un vantaggio per tutti.

La comunità locale coinvolta nel progetto probabilmente non lo vedrà mai, ma se dovesse succedere, è comunque difficile prevedere le loro reazioni. Probabilmente sarebbero orgogliosi di essere al centro dell’attenzione in un media europeo.

In tutti i progetti in Asia su cui ha lavorato, tra cui “Dead Goat Polo”, “Kid Jockeys”, “Kushti”, “Moharram”, “Living for Death”, “Muay Thai Kids” e non solo, un senso di spettacolarità e teatralità fa da filo conduttore, sia per le scene drammatiche che per le pratiche più inconsuete, forse addirittura sorprendenti per un pubblico occidentale, ma più familiari a uno non occidentale.
La scelta dei temi è premeditata in base al tipo di pubblico che vuole raggiungere?
No.

Sceglie allora di qualcosa che l’appassiona personalmente? Cosa ricerca prima di prendere una decisione riguardo un progetto?
Mi piace raccontare storie in maniera personale e visiva. Cerco di essere imparziale nel senso che non voglio fuorviare il pubblico su quello che ho visto, ma comunque tento sempre di raccontarlo in maniera personale attraverso la giusta inquadratura, l’uso del colore o del bianco e nero… Scattare una serie di fotografie permette di comprendere meglio una storia. Di solito non scatto foto singole. Ragiono più in termini di serie. L’editing è fondamentale. Si possono raccontare anche due storie diverse in base a dove si decide di mettere l’accento. Entrambe però devono essere vere.

Il nostro lavoro ci definisce tanto quanto noi definiamo il nostro lavoro. Con la realizzazione del progetto “Muay Thai Kids” è cambiato qualcosa in lei, magari ha una nuova mentalità o sensibilità, o altro?
No, ma semplicemente perché negli ultimi 50 anni ho passato così tanto tempo in Asia che ho capito perché esistono queste realtà in questi paesi. Ma ci tengo a precisare che resto comunque contrario a questi combattimenti.

E poi, tra tutti i progetti che ha realizzato, quale ha avuto il maggiore impatto sulla sua personale visione della vita, o magari ha portato a un cambio di prospettiva nel modo di vedere la società o qualcos’altro?
Quello in Afghanistan del 1974. Sono arrivato in Afghanistan dal confine iraniano nel tardo pomeriggio.
Dietro di me il sole illuminava la polverosa strada principale di Herat (Afghanistan occidentale).
Ho visto uomini col turbante, carri trainati da cavalli, donne con il velo: è stato visivamente magico,
come entrare in un’altra dimensione.
Non mi era mai capitato di assistere a un cambio di scena così drastico. È stato come
tornare indietro nel tempo nel Medio Evo. Sono tornato diverse volte in Afghanistan,
l’ultima è stata nel 1978, un anno prima dell’invasione da parte della Russia, e poi a causa della
guerra non ci sono potuto andare per 30 anni. Nel 2015 sono ritornato in Afghanistan per qualche
giorno passando per il Tajikistan. Non era cambiato niente. La gente è sempre così accogliente.
È come se fosse un paese sospeso nel tempo.

In qualità di fotoreporter e fotografo documentarista che ha girato il mondo per raccontare storie attraverso veri e propri scenari visivi che riescono immediatamente ad attirare l’attenzione anche degli sguardi più distratti, cosa ne pensa di questo mondo in via di globalizzazione dove le culture native stanno perdendo la loro unicità (e la loro identità secolare) uniformandosi sempre di più alle “influenze modernizzanti” diffuse dai media globali e da altre fonti? Crede che il mondo intero stia perdendo un prezioso patrimonio culturale? Se sì, è anche questo uno dei motivi che in qualche modo la spinge a continuare su questa strada? E inoltre, la fotografia potrebbe contribuire a rallentare questo fenomeno, o magari proprio invertire la tendenza in futuro, a meno che non sia già troppo tardi?

Difficile da dirsi. Tutti sperano in una vita migliore e i genitori vorrebbero un futuro migliore per i propri figli senza dover rinunciare alle usanze o alle tradizioni che rappresentano un valore immenso per le loro società. La fotografia può sicuramente sensibilizzare l’opinione pubblica illustrando e documentando le pratiche culturali e le questioni economiche e sociali che ne derivano, ma è poco probabile che da sola riesca a rallentare o invertire qualsiasi tendenza. Per preservare in maniera efficace il patrimonio culturale in un mondo in continua evoluzione, è necessaria una combinazione di educazione, iniziative per promuovere la conservazione del patrimonio e azioni di governo.

Kid Jockeys è un buon esempio di una tradizione che continua e si evolve in un mondo moderno. In poche parole, la serie rappresenta intrepidi fantini-bambini dai 5 ai 10 anni che cavalcano senza sella, a piedi nudi e con poche protezioni, raggiungendo una velocità di oltre 80 chilometri orari su cavalli di piccola taglia tipici di quella regione (Sumbawa, Indonesia). Passando parecchio tempo in pista, ho iniziato a perfezionare il mio approccio alle serie. All’inizio pensavo che si trattasse solo di sport, ma quando ho scoperto i rituali fuori dalla pista, ho iniziato a modificare le foto per poter rappresentare l’intera storia. Mi ha colpito anche il contrasto tra il moderno stile di vita indonesiano, quest’usanza locale, e il modo in cui le persone hanno scelto di portare avanti la propria passione con i cavalli. Nell’arco di più di un secolo questa tradizione delle corse non è mai cambiata.

L’unico aspetto che non ho apprezzato è stato il fatto che i bambini non indossassero caschi. Senza sella e a piedi nudi va bene, ma è chiaro (o dovrebbe essere chiaro) che, nonostante l’assistenza medica, è quasi inevitabile che qualcuno prima o poi cada. E quando succederà, un casco potrebbe salvargli la vita o almeno limitare i danni della caduta. Be’, gli adulti dovrebbero saperlo…

Da dove trae ispirazione per sviluppare e allenare il suo occhio fotografico – film, libri, fotografi? Qual è la sua frase preferita sulla fotografia?
Mi interessa soprattutto rappresentare in maniera dettagliata le storie delle persone e dell’ambiente in cui vivono. Mi affascinano le diverse culture, i modi di vivere, i rituali e le usanze. Quello che cerco di fare è raccontare una storia in 10-15 immagini catturando l’essenza di un istante con la giusta luce e una perfetta inquadratura.

In qualsiasi situazione, c’è sempre una bella fotografia da scattare.

In che modo la sua esperienza nell’ambito del fotoreportage ha influenzato il suo approccio alla fotografia? E questo approccio è cambiato nel corso degli anni?
Un aspetto importante del fotoreportage è che la luce deve contribuire a raccontare la storia, un concetto difficile da spiegare in poche parole. Qualche mese fa mi è stato chiesto di esaminare alcuni portfolio e mi sono accorto che diversi fotografi non avevano proprio capito come usare la luce per creare la giusta atmosfera nelle loro serie. È un po’ come quando nei film piove sempre quando sta per succedere qualcosa di triste o sta per essere commesso un omicidio. Poi un fotografo mi ha mostrato alcune immagini della sua serie scattate di notte che raffiguravano le fabbriche nel centro di una città del Brasile: era proprio quella la luce giusta per questo tema. Andava bene perché, dato che alcune parti dell’immagine erano molto scure, si potevano vedere le finestre ben illuminate con le persone all’interno. La stessa foto scattata in pieno giorno non sarebbe stata altrettanto interessante. La scelta del momento in cui scattare la foto a volte è importante tanto quanto la foto in sé, ma ovviamente non sempre c’è la possibilità di decidere.

Cosa direbbe a qualcuno che vuole approcciarsi alla fotografia documentaria per potersi fare strada in questo campo? Di solito si consiglia di seguire i propri interessi, lei invece consiglierebbe ai fotografi di pensare più in grande e andare a documentare, sia a livello locale che regionale, qualcosa che possa interessare l’intera umanità?
Iniziamo col consiglio che a me è mancato quando ero un giovane fotografo. Ho iniziato a studiare
fotografia nel 1971. Ho avuto bravissimi insegnanti di laboratorio di fotografia in bianco e nero
(ovviamente analogica al tempo, e che comunque mi ha aiutato molto nel corso della mia carriera),
ma purtroppo nessuno mi ha insegnato nulla nel campo del fotoreportage.
Ho dovuto imparare tutto da solo quando ho iniziato come fotografo sportivo professionista.
Per esempio, nel 1974, durante le vacanze estive, ho viaggiato dal Belgio all’Afghanistan in
autostop passando per Europa, Turchia e Iran, per il progetto scolastico finale.
Lungo la strada ho fotografato la gente del posto ma mi sono “dimenticato” di realizzare una serie
anche su quei ragazzi di vent’anni chiamati “hippy” che viaggiavano per il mondo. Al tempo
non mi ero resto conto valore giornalistico di quella particolare storia perché
non avevo esperienza nel campo del fotoreportage, ma avevo piuttosto un approccio estetico
alla fotografia.

Se devo dare un consiglio, devo prima raccontare un’esperienza interessante di quando ero
un fotografo sportivo professionista. Per molti anni sono stato invitato a partecipare alla
realizzazione del libro “il Roland Garros visto dai 20 migliori fotografi di tennis del mondo”
di cui si occupava Yann Arthus-Bertrand, famoso regista e fotografo francese. Nell’ambito del
Roland Garros l’idea era che ogni giorno 20 fotografi presentassero
qualche bella foto da esporre immediatamente. Yann avrebbe poi selezionato
le migliori immagini per il libro. A volte non mi selezionavano neanche per l’esposizione!
Ma ogni giorno i miei colleghi riuscivano a scattare belle foto laddove io magari non avevo visto
niente di speciale. Potevano aver trovato una nuova postazione, un nuovo modo di vedere le cose
da una diversa prospettiva, o potevano aver scattato foto di notte dopo le partite, ecc.
Che cosa significa? Che le foto ci sono, esistono già. Ti devi solo chiedere:
in che modo posso fare una bella foto e qual è la postazione migliore per scattare?
Poi devi trovare il posto e il momento giusto (intendo aspettare che arrivi e non farlo arrivare).
Bisogna quindi tener presente che le immagini già “esistono” in un certo senso, e che se non le
immortalo io, sarà un altro fotografo nello stesso posto che troverà il modo di renderle visibili.
C’è sempre una bella fotografia da scattare, basta lavorare sodo per riuscire a immortalarla.
Quest’idea non mi abbandonerà mai.

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